Mater verissima – La cucina del rigattiere
“La porta era spalancata sul freddo della notte autunnale. Con una certa circospezione mi affacciai e chiesi permesso. Era, invece, un locale strano, pieno di oggetti antichi, tutti puliti e raggruppati per genere, appesi alle pareti così vicini uno all’altro da non lasciare alcuno spazio libero.
Una lampada spandeva un cono di luce su un tavolo miserabile al centro della stanza, dove una ragazza magrissima, brutta, seduta su una vecchia sedia, sfogliava una rivista. La sigaretta accesa, appoggiata in un vecchio posacenere di latta dorata, si consumava in volute di fumo nervose.
Come stregato, osservavo lei e la stanza. La ragazza aveva un fascino animalesco, perverso e misterioso allo stesso tempo…”.
Genesi. Mi stupisco sempre quando mi accorgo di quanto alcuni fatti, di per sé privi di significato, possano incidere sull’essere umano e lasciare una traccia indelebile.
Mi successe una decina d’anni fa in una sera d’ottobre, una di quelle sere in cui sarei rimasto volentieri a casa. Quella volta mi accadde di dover uscire. Avevo un appuntamento con un amico nei nuovi locali di un’associazione. Arrivato nella via che mi era stata indicata, mi resi conto di aver dimenticato a casa il pezzetto di carta sul quale avevo scritto il numero civico. La strada, in un antico quartiere, era lunga, buia e poco frequentata. Cercavo un arco attraverso il quale si accedeva ai locali, così mi era stato detto. Non lo trovai perché di archi e androni ce n’erano molti e da nessuno proveniva un suono o un chiacchiericcio. Il buio era quasi totale, così come il silenzio. Percorsi la strada più volte, mentre le porte, i portoni e le ombre si succedevano una dietro l’altra.
Sapendo che non era prudente dilungarsi in quella zona, chiamai l’amico al cellulare. Non era raggiungibile. Poi, come per miracolo, scorsi una luce allungarsi sul marciapiede.
«Ecco, finalmente!», esclamai sollevato e convinto di essere arrivato a destinazione.
Avvicinandomi mi accorsi però che non era quella la mia meta perché la luce filtrava dalla porta di un negozio a livello del marciapiede.
«Chiederò informazioni», mi rassicurai.
La porta era spalancata sul freddo della notte autunnale. Con una certa circospezione mi affacciai e chiesi permesso.
Non si trattava del luogo che cercavo né di un negozio. Era, invece, un locale strano, pieno di oggetti antichi, tutti puliti e raggruppati per genere, appesi alle pareti così vicini uno all’altro da non lasciare alcuno spazio libero.
A distanza di anni non so dire cosa mi colpì di più: i tantissimi oggetti così ben raccolti, la strana ragazza che mi osservava con lo stesso stupore con il quale osservavo tutto lì dentro, oppure era l’insieme delle cose. Autosuggestione di sicuro, ma avvertii forte la presenza di chi aveva posseduto quegli oggetti. Era un gocciolare di parole, di fatti, di pensieri; un consumarsi di vite, discussioni, odi, amori, disperazioni, ma anche risa, grida e giochi di fanciulle. Era come se tutti volessero richiamare la mia attenzione, come i bimbi quando lanci loro le caramelle e gridano Io! Io!, levando le braccia verso di te.
Ci fu uno scambio di saluti, cortesemente le chiesi informazioni. Lei mi rispose con la medesima cortesia e sorrise al mio stupore e alle mie domande su tutti gli oggetti esposti e su quel luogo così poco consueto.
Come stregato, osservavo lei e la stanza. La ragazza aveva un fascino animalesco, perverso e misterioso allo stesso tempo, con quell’enorme massa di capelli neri e ricci che, trattenuti dietro la nuca da un elastico, le esplodevano poi sulle spalle. Il locale era la cucina di un piccolo appartamento. Me ne accorsi perché, quasi sommerso da quella congerie, vidi un lavandino di pietra con un unico rubinetto d’ottone e una porta socchiusa dietro la quale spiccò il lucore di un copriletto bianco in una camera matrimoniale.
Appresi dalla ragazza che tutti gli oggetti erano stati raccolti dal nonno, rigattiere di mestiere. Venni anche a sapere che non erano in vendita e che sarebbero stati trasferiti perché i locali erano stati venduti. La donna aggiunse che aspettava il fidanzato che sarebbe arrivato da lì a poco. Dubitai di lei e, per un attimo, pensai che fosse una prostituta in attesa di clienti. L’invito a tornare quando volevo avvalorò i miei sospetti.
Confuso, rientrai subito a casa, portandomi dietro atmosfere e sensazioni. Per diversi giorni ripensai a quell’incontro, immaginando le vite e i segreti che tutti quegli oggetti portavano con sé. Pensai anche che, a scavare per bene, si sarebbe potuta trovare una qualsiasi verità. Anche la vera origine di ciascuno di noi. Fu così che maturai l’idea di un libro che prese forma e corpo e che, una volta ultimato, giacque per dieci anni in un file del mio pc con il titolo “La cucina del rigattiere”. Oggi è riemerso rinnovato da un decennio di giorni e di accadimenti, con un titolo nuovo e rappresentato da una bolla che sorge dal mare, segno di origine di una vita. Quella vera.
Sono ritornato dopo più di un anno sul luogo. La ragazza non mi aveva mentito, il locale era stato davvero ristrutturato. Il portoncino nuovo, rientrato dietro un cancellino di ferro battuto, ne era la testimonianza.
Ancora a distanza di anni ripenso a quell’episodio e ancora avverto le stesse sensazioni. Parola mia, parola d’autore, è andata proprio così.
I riconoscimenti ottenuti sono stati: Primo Classificato al Premio “Circe. Una donna tante culture” di Monterotondo (RM). Secondo Classificato al Premio Letterario “Città Cava dei Tirreni” (SA), Secondo Classificato al Premio Letterario “Città di Martisicuro” (TE) Secondo Classificato al Premio Letterario “Pennacalamaio” (Savona), e finalista al Concorso Letterario “Jaques Prévert 2010” Melegnano (MI).
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