Scrivere per comprendere

Categoria: Tecniche di scrittura

Dalla parte del giurato: gioie e dolori dei concorsi letterari

Quest’anno le opere in concorso arrivate al Premio A.L.A. “Il magnifico lettore”, per la sezione narrativa edita, sono state tante. Troppe, forse, se viste nell’ottica dei valutatori.

Troppe perché il lavoro da svolgere è molto e richiede tanto tempo. È ovvio, ci sono giurie e giurie e ciascuna adotta un suo criterio. Spesso non c’è alcun criterio se non quello di una scorsa al testo e di una scelta così, quasi a casaccio: questo sì, questo no.

Nella mia lunga esperienza di concorrente mi sono imbattuto anche in queste situazioni. Perché io, anche se giurato in questo contesto, sono uno a cui piace partecipare ai premi letterari, e talvolta ancora lo faccio, scegliendo i concorsi letterari che reputo seri o che mi restituiscono la misura del mio lavoro. E, si sa, non sempre si vince e non sempre la tua opera piace. Ma tant’è. In ogni caso, se su un totale di partecipazioni si ottiene un buon numero di piazzamenti nelle vette delle classifiche finali, vuol dire che il lavoro può andare.

Fotografia di una premiazione del premio Letterario A.L.A. 2019

Con gli anni poi si matura quell’esperienza che ci permette un’autovalutazione, ma è necessario che un autore non abbassi mai la guardia e si confronti ripetutamente con gli altri. Per questo è indispensabile leggere, ma anche affidarsi sempre a editor o lettori in grado di darti onestamente le loro impressioni.

Si evita in tal caso quella bolla autistica nella quale ci si rinchiude, credendoci, spesso sbagliando, grandi scrittori incompresi.

In ogni caso noi di A.L.A., costi quel che costi, i libri in gara li leggiamo tutti, partendo dal principio che ogni scrittore mette l’anima nel proprio lavoro e per questo deve essere rispettato.

Si procede per gradi e si affidano le opere alle varie commissioni incaricate di leggerle e, come nello sfogliare una cipolla, si scartano le opere di minore qualità, quelle cioè che hanno ottenuto i punteggi più bassi. Usiamo una griglia di valutazione, frutto di ripetute analisi, confronti e rielaborazioni da parte del Consiglio Direttivo e del Comitato di Valutazione della nostra associazione editoriale. Tale griglia, che è un riferimento anche per ogni manoscritto che ci è proposto, prevede l’assegnazione di un punteggio a 7 criteri oggettivi e 4 soggettivi. A questi criteri, qualora si tratti di una proposta di pubblicazione, si aggiungono alcune righe di commento personale del valutatore, ma vale solo per il Comitato di valutazione.

Per quanto riguarda le opere in concorso, un banale foglio elettronico decreterà la graduatoria finale, dopo mesi di letture e riletture dei libri proposti, evitando un confronto tra i giurati, dove spesso quello più dotato di capacità oratorie cercherà di imporre la propria volontà, quindi il proprio gusto, agli altri. Insomma cerchiamo di essere seri, convinti che la serietà riesce ancora a pagare.

Fin qui, in sintesi, la parte operativa. Adesso mi calo nella parte del membro della giuria.

Durante l’analisi dei testi si notano subito molte cose. Tanti sono gli autori alle prime armi e la loro inesperienza spicca in maniera evidente per lo stile narrativo, per la storia proposta e per la tecnica usata. A monte di queste opere c’è sempre anche l’inesperienza, o la trascuratezza, di alcune case editrici che seguono poco o niente gli autori nella revisione dei testi che loro stesse hanno poi pubblicato. Diverse opere, fortunatamente non tutte, presentano errori grammaticali e refusi vari. Credo sia fondamentale per un autore, prima di affidarsi a una casa editrice, leggere alcune delle opere da loro già pubblicate.

Foto di StockSnap da Pixabay

Non sto, invece, a soffermarmi sul come viene impaginato il libro perché siamo chiamati a valutare il contenuto, ma è evidente che tantissime case editrici non fanno alcun tipo di editing né di revisione di bozza né, tantomeno, ne curano l’aspetto. Si limitano a dare una letta al testo, a togliere gli errori più evidenti e a mandarlo in stampa quasi come gli è stato presentato. Fare un editing e una successiva revisione di bozza costa molto in termini economici e di tempo, ammesso che certe cose si sappiano fare, perché talvolta le anomalie strutturali sono così macroscopiche da lasciare interdetti.

Gli errori che riscontriamo più spesso risiedono nella banalità delle storie, nella ripetizione ossessiva di certi concetti che stanno alla base del romanzo, nella mancanza di ritmo e di capacità di catturare l’interesse del lettore, nella struttura stessa delle frasi e nella mancanza quasi totale di una rielaborazione personale. Se una storia non è scritta solo per far trascorrere ore liete a un eventuale lettore – e lo si capisce subito – deve avere dei contenuti o deve trasmettere dei valori che siano possibilmente anche il frutto di un’elaborazione personale dell’autore.

I dialoghi poi sono il vero punto debole di molti romanzi. Ci sono tecniche ben precise e moltissimi sono i libri che trattano l’argomento e spiegano come scrivere un libro in maniera più efficace. In ogni caso, alla base ci sono la poca cura, la scarsa pignoleria e la mancanza di volontà di aggiornarsi e di migliorarsi sia da parte degli autori che da parte degli editori, in un settore, quello dell’editoria, che è davvero spietato.

Come mi approccio io a un libro? Leggo l’incipit, in media 50 pagine, e mi interrogo. Mi piace? Com’è scritto? È formalmente corretto? Sono pieni di retorica, banalità, luoghi comuni, prediche? Qualcosa mi colpisce in maniera particolare? O mi disturba? Quali sono le emozioni che muove in me? Ho voglia di continuare la lettura o mi annoio? Quindi valuto l’ambientazione, i personaggi, il loro aspetto psicologico, la storia proposta e mi chiedo che cosa l’autore voglia trasmettere con il suo lavoro.

Con le opere scritte male si fa presto, ma capitano anche opere scritte benissimo con una densità e una accuratezza di linguaggio da stupire, perché persone che scrivono molto bene ce ne sono tante. E può capitare anche che un libro, scritto così bene, a un certo punto mi stanchi e che mi faccia passare la voglia di continuarne la lettura. Vuol dire che, a me lettore, è successo qualcosa.

La capacità di un autore, ed eventualmente di un editor, sta anche nel rendersi conto quando qualcosa è troppo e quando un lettore potrebbe avvertire il bisogno di minore intensità, oppure quando la scrittura sta diventando puro esercizio di bella scrittura, priva di emozione.

In ogni caso le situazioni sono tante e così diverse tra loro da dover essere trattate a parte.

E si arriva alla rosa dei cinque finalisti. Sono tutti bei libri, scritti bene, curati, diversissimi tra loro per contenuti e storie, scritti da autori sconosciuti che giocano nelle retrovie di un campionato che li relega tra i dilettanti, quando in realtà potrebbero benissimo confrontarsi con i professionisti. Insomma, io li premierei tutti e cinque. Ma non si può fare, devo scegliere, aggrapparmi a quelle che sono le imperfezioni, devo sforzarmi di trovarle anche se non ce ne sono di macroscopiche o determinanti. Allora mi estraneo dai testi, li sorvolo dall’alto e, operando una valutazione epidermica del tutto personale, mi domando quale potrebbe essere il vero vincitore. E compilo la mia ultima scheda di valutazione, soppesando anche il punto di scarto tra l’una e l’altra.

Il mio compito è terminato. I miei voti, uniti ai voti degli altri membri della giuria, circa 20, finiranno in pasto a uno spietato foglio elettronico che emetterà il suo verdetto.

Insomma, vinca il migliore!

Voglio andare in carcere! Una scelta di libertà

Talvolta ci si imbatte in vere e proprie piccole perle di letteratura che ci vengono in dono da autori pressoché sconosciuti, quelli che fanno parte della cosiddetta editoria minore.

Sarah Salvini, autrice dell’opera, è una di questi.

Giovane avvocato ventiseienne, Sarah decide di fare i due anni di praticantato necessari per accedere alla professione forense, affiancando un penalista di Roma che presta opera di volontariato presso Nuovi Orizzonti, una struttura dedita all’assistenza dei giovani tossicodipendenti. Per questo lascia Livorno, la sua città d’origine, e si trasferisce nella comunità della Capitale dove per due anni svolgerà, oltre all’assistenza legale, varie mansioni come segretaria, educatrice e coordinatrice.

Oggi, dopo oltre vent’anni, donna coniugata e madre di due figli, Sarah Salvini decide di regalarci la sua esperienza. È inutile sperticarsi in lodi sull’opera proposta dall’autrice che alterna pagine del diario di allora ai sentimenti e alle emozioni di oggi. Ciascun lettore potrà valutare la sua testimonianza in accordo con il proprio sentire. Certo è che ogni pagina fa riflettere, certo è che l’autrice oggi non si nasconde agli occhi del lettore, esattamente come non si nascondeva allora.

Prenderò come esempio una sola paginetta, una prosa poetica dal titolo Pietro, scegliendola tra molte altre di analogo spessore. L’ho scelta perché in questa pagina c’è la rappresentazione dell’essere umano in molte delle sue caratteristiche.

Pietro è andato via.
Pietro lo hanno portato via.
Pietro ha chiesto di essere portato via.
E loro sono venuti a prenderselo,
gli hanno messo le manette e se lo sono portato via.
Era questo che voleva, Pietro.
Voleva tornare in carcere,
voleva tornare in cella.
Non gli piacevano gli arresti domiciliari.
Non era stato lui a chiederli.
Glieli aveva imposti il suo avvocato.
Glieli aveva imposti il padre.
La madre no. La madre non l’aveva più.
Forse non l’aveva mai avuta.
In carcere poteva dormire quanto voleva.
In carcere poteva guardare la tv a ogni ora.
In carcere, raccontava, poteva immaginare un modo per fuggire, per evadere.
Pietro era buono, 
era bello,
era un bambino.
Pietro era intelligente,
anche quando fingeva di essere matto.
Pietro era debole,
anche quando fingeva di essere duro.
Pietro era sensibile,
anche quando credeva di essere cinico.
Pietro era solo,
profondamente solo.
Da troppo tempo.
Pietro è andato via.
Gli hanno messo le manette.
Rideva, secondi alcuni.
Era serio, secondo altri.
Io non c’ero.
Io non l’ho visto andare via.
Pietro, non lo dimenticherò mai.

Sbarre alla finestra di una prigione buia.

Mi addentrerò un po’ nel testo sapendo di non essere esaustivo e che le considerazioni che faccio sono mie e che altri potrebbero avere opinioni più profonde, più vere (ma dov’è la verità?) e totalmente diverse.

Dal punto di vista letterario. Quanti modi ci sono per scrivere di un ragazzo che decide di abbandonare la comunità per scontare la pena in carcere? Molti. Infiniti direi. Uno per ogni autore che volesse narrare un fatto del genere.

Perché colpisce il modo di scrivere di Sarah Salvini? Perché è un esempio di scrittura netta, pulita, sentita, sincera, non artefatta che, proprio per questo, arriva diretta al lettore.

Dal punto di vista psicologico c’è la negazione del qui e ora e l’idealizzazione della spinta propulsiva fino all’eccesso, e al paradossale, del progredire, dell’andare oltre, del sognare, dell’essere qui e desiderare altro. Pietro (nome di fantasia) rinuncia al suo regime degli arresti domiciliari, seppur in un contesto sociale amichevole e condiviso, e sceglie di scontare la sua pena in carcere perché lì, tra le sbarre, potrà sognare la libertà. Una scelta che stupisce tutti e che ci porta all’interessantissima considerazione che il sognare la libertà è più bello che averla. Il sognare un luogo ameno, la ricchezza, la fama, un amore, una macchina di lusso, la serenità, la bicicletta o un giocattolo è più bello che godere di fatto del bene agognato. Nel godimento del bene non c’è mai la completezza, c’è la vita di tutti i giorni ad appannarci l’esistenza. E poi, dopo dieci minuti, un’ora, un mese, è la nostra natura a farci buttare via il giocattolo e a farci pensare a qualcos’altro. È la nostra spinta evolutiva, ma anche la nostra condanna.

Dal punto di vista degli altri c’è, accanto allo stupore e al dolore corale dei compagni di comunità, l’osservazione diversa, l’interpretazione dei sentimenti che Pietro prova al momento dell’arresto, visti con gli occhi dei presenti: chi lo scorge spavaldo, chi triste, chi sorridente, chi sereno. Sono proiezioni, è ovvio, ciascuno vede rispecchiati nell’altro i propri pensieri e le proprie emozioni.

Dal punto di vista dell’autrice arrivano netti il dolore per una perdita, la fragilità e la solitudine del ragazzo, l’affetto, il futuro compromesso del giovane, l’occasione perduta e il dispiacere per non essere stata presente. Un rammarico urente, un urlo sommesso, il pensiero che forse una sua parola, insieme alle esortazioni corali, avrebbe potuto fare la differenza. Di sicuro l’autrice si sarà chiesta se il ragazzo è ancora in vita e cosa ricorda di quella scelta coraggiosa. Forse udirà anche le voci dei compagni di cella e le parole di chi lo avrà deriso, di chi lo avrà compreso, di chi si sarà approfittato della sua ingenuità e di chi si sarà messo a sognare con lui. Per non parlare della speranza che Qualcuno abbia dato un senso anche a quella decisione.

Copertina del libro "Via Portoferraio, 9"

Il brano che ho scelto non è che uno dei tanti, una testimonianza di scrittura e di rappresentazione di un mondo che vogliamo ignorare ma che esiste e sul quale dovremmo talvolta soffermarci un attimo a riflettere.

Via Portoferraio, 9 – 653 insieme” di Sarah Salvini – A.L.A. Libri Livorno-Firenze-Siena (2022)

Marco Rodi

http://www.marcorodi.it/

Le immagini sono fornite da Pixabay

La logica algoritmica nella narrativa gialla

Pubblicato da Ala Redazione il 4 Aprile 2022

Le immagini sono fornite da Pixabay

Apprestarsi a scrivere un giallo non è affatto impresa facile perché tantissimi sono gli aspetti da prendere in considerazione. C’è una vasta letteratura in tal senso e internet pullula di siti prodighi di suggerimenti, consigli, tecniche e, soprattutto, di regole da rispettare.

Mi soffermerò solo su un punto: la trama e le tecniche per la sua stesura. È chiaro che è l’autore a pensare una storia e a deciderne l’evoluzione, ma è altrettanto chiaro quanto questo aspetto sia tra gli elementi fondamentali e quanta cura esso richieda affinché il prodotto finale sia soddisfacente per il lettore.

Si parte ovviamente dall’idea per passare subito alla costruzione del canovaccio, prima che l’idea stessa evapori. In qualità di ex informatico, non ho potuto fare a meno di constatare come la scrittura della storia sia simile alla logica della programmazione. L’errore infatti è sempre dietro l’angolo. 

Esattamente come si fa nell’implementazione di un algoritmo, o di un programma vero e proprio, occorre tenere conto di tutte le condizioni possibili, anche di quelle più improbabili, pena il malfunzionamento del programma e la restituzione di dati errati.

Nel pensare un giallo, pur essendo chiaro all’autore lo sviluppo della storia, occorre fare un ulteriore lavoro, forse più complesso e articolato rispetto alla stesura di un algoritmo: simulare che l’evento sia vero e poi indossare alternativamente i panni del criminale, al quale farà compiere certe azioni, e dell’investigatore, che s’impegnerà al massimo nell’indagine.

È ovvio che la trama è invenzione dello scrittore, che può svilupparla come vuole in un qualsiasi contesto ambientale, ma non si può assolutamente stilare l’elenco dei passi dall’inizio alla fine, senza prevedere i possibili eventi casuali. Si rischia di arrivare alla soluzione e non rendersi conto che nel ragionamento sono presenti falle, contraddizioni o eventualità che avrebbero potuto portare molto prima alla soluzione del caso. In pratica, rispetto alla scrittura algoritmica, nella stesura della trama di un Giallo è come se ci fosse una controparte (l’investigatore) che nell’indagare reagirà alle azioni definite dall’autore. Un sistema che in un certo qual modo si potrebbe definire dinamico.

Faccio un esempio. La scena si svolge in piena notte, un uomo deve uscire da casa, recarsi in un certo luogo, attraversare una strada oltre la quale compirà un omicidio e, ovviamente, non vorrà farsi scoprire. Bene, due sono le soluzioni. Quella più semplice induce l’autore a descrivere staticamente le azioni una dietro l’altra senza curarsi dei dettagli. L’altra è quella algoritmica.

Ha programmato tutto? Come ha lasciato l’abitazione? A quale ora? Qualcuno l’ha visto uscire di casa? Com’è arrivato sul luogo del delitto? A piedi, in macchina o con quale mezzo? Chi potrebbe averlo visto lungo la strada? È buio e non c’è nessuno. Ne è sicuro? E se invece qualcuno che lui non vede è acquattato da qualche parte? Ha tenuto conto delle possibili telecamere? E il cellulare dove l’ha lasciato? Se l’ha portato con sé, lo sa che potrà essere in seguito tracciato dagli inquirenti? Quale arma userà? È un’arma idonea? In quale modo affronterà la futura vittima, è in grado di aggredirla nella maniera sperata o c’è il rischio di una reazione? Quanto tempo impiegherà a compiere l’omicidio? È realmente compatibile con i tempi necessari al suo ritorno senza rischiare di essere scoperto? In definitiva le domande da porsi prima di ogni azione sono moltissime.

Ecco, è nella stesura della trama che deve intervenire la logica algoritmica dell’autore-programmatore e, a meno che non sia previsto un bug (in informatica, errore di funzionamento di un programma) e che questo sia l’errore voluto che permetterà di incastrare il colpevole, errori di programmazione non ce ne devono essere e tutto deve essere minuziosamente valutato prima. Esattamente come in un algoritmo, la trama deve essere studiata nei dettagli, step dopo step, per evitare quei tanto odiati fatal error  o runtime error che determinano lo stop del programma o peggio ancora la figuraccia dell’autore che non ha previsto, o non ha visto, l’imprevisto.

Marco Rodi