Talvolta ci si imbatte in vere e proprie piccole perle di letteratura che ci vengono in dono da autori pressoché sconosciuti, quelli che fanno parte della cosiddetta editoria minore.

Sarah Salvini, autrice dell’opera, è una di questi.

Giovane avvocato ventiseienne, Sarah decide di fare i due anni di praticantato necessari per accedere alla professione forense, affiancando un penalista di Roma che presta opera di volontariato presso Nuovi Orizzonti, una struttura dedita all’assistenza dei giovani tossicodipendenti. Per questo lascia Livorno, la sua città d’origine, e si trasferisce nella comunità della Capitale dove per due anni svolgerà, oltre all’assistenza legale, varie mansioni come segretaria, educatrice e coordinatrice.

Oggi, dopo oltre vent’anni, donna coniugata e madre di due figli, Sarah Salvini decide di regalarci la sua esperienza. È inutile sperticarsi in lodi sull’opera proposta dall’autrice che alterna pagine del diario di allora ai sentimenti e alle emozioni di oggi. Ciascun lettore potrà valutare la sua testimonianza in accordo con il proprio sentire. Certo è che ogni pagina fa riflettere, certo è che l’autrice oggi non si nasconde agli occhi del lettore, esattamente come non si nascondeva allora.

Prenderò come esempio una sola paginetta, una prosa poetica dal titolo Pietro, scegliendola tra molte altre di analogo spessore. L’ho scelta perché in questa pagina c’è la rappresentazione dell’essere umano in molte delle sue caratteristiche.

Pietro è andato via.
Pietro lo hanno portato via.
Pietro ha chiesto di essere portato via.
E loro sono venuti a prenderselo,
gli hanno messo le manette e se lo sono portato via.
Era questo che voleva, Pietro.
Voleva tornare in carcere,
voleva tornare in cella.
Non gli piacevano gli arresti domiciliari.
Non era stato lui a chiederli.
Glieli aveva imposti il suo avvocato.
Glieli aveva imposti il padre.
La madre no. La madre non l’aveva più.
Forse non l’aveva mai avuta.
In carcere poteva dormire quanto voleva.
In carcere poteva guardare la tv a ogni ora.
In carcere, raccontava, poteva immaginare un modo per fuggire, per evadere.
Pietro era buono, 
era bello,
era un bambino.
Pietro era intelligente,
anche quando fingeva di essere matto.
Pietro era debole,
anche quando fingeva di essere duro.
Pietro era sensibile,
anche quando credeva di essere cinico.
Pietro era solo,
profondamente solo.
Da troppo tempo.
Pietro è andato via.
Gli hanno messo le manette.
Rideva, secondi alcuni.
Era serio, secondo altri.
Io non c’ero.
Io non l’ho visto andare via.
Pietro, non lo dimenticherò mai.

Sbarre alla finestra di una prigione buia.

Mi addentrerò un po’ nel testo sapendo di non essere esaustivo e che le considerazioni che faccio sono mie e che altri potrebbero avere opinioni più profonde, più vere (ma dov’è la verità?) e totalmente diverse.

Dal punto di vista letterario. Quanti modi ci sono per scrivere di un ragazzo che decide di abbandonare la comunità per scontare la pena in carcere? Molti. Infiniti direi. Uno per ogni autore che volesse narrare un fatto del genere.

Perché colpisce il modo di scrivere di Sarah Salvini? Perché è un esempio di scrittura netta, pulita, sentita, sincera, non artefatta che, proprio per questo, arriva diretta al lettore.

Dal punto di vista psicologico c’è la negazione del qui e ora e l’idealizzazione della spinta propulsiva fino all’eccesso, e al paradossale, del progredire, dell’andare oltre, del sognare, dell’essere qui e desiderare altro. Pietro (nome di fantasia) rinuncia al suo regime degli arresti domiciliari, seppur in un contesto sociale amichevole e condiviso, e sceglie di scontare la sua pena in carcere perché lì, tra le sbarre, potrà sognare la libertà. Una scelta che stupisce tutti e che ci porta all’interessantissima considerazione che il sognare la libertà è più bello che averla. Il sognare un luogo ameno, la ricchezza, la fama, un amore, una macchina di lusso, la serenità, la bicicletta o un giocattolo è più bello che godere di fatto del bene agognato. Nel godimento del bene non c’è mai la completezza, c’è la vita di tutti i giorni ad appannarci l’esistenza. E poi, dopo dieci minuti, un’ora, un mese, è la nostra natura a farci buttare via il giocattolo e a farci pensare a qualcos’altro. È la nostra spinta evolutiva, ma anche la nostra condanna.

Dal punto di vista degli altri c’è, accanto allo stupore e al dolore corale dei compagni di comunità, l’osservazione diversa, l’interpretazione dei sentimenti che Pietro prova al momento dell’arresto, visti con gli occhi dei presenti: chi lo scorge spavaldo, chi triste, chi sorridente, chi sereno. Sono proiezioni, è ovvio, ciascuno vede rispecchiati nell’altro i propri pensieri e le proprie emozioni.

Dal punto di vista dell’autrice arrivano netti il dolore per una perdita, la fragilità e la solitudine del ragazzo, l’affetto, il futuro compromesso del giovane, l’occasione perduta e il dispiacere per non essere stata presente. Un rammarico urente, un urlo sommesso, il pensiero che forse una sua parola, insieme alle esortazioni corali, avrebbe potuto fare la differenza. Di sicuro l’autrice si sarà chiesta se il ragazzo è ancora in vita e cosa ricorda di quella scelta coraggiosa. Forse udirà anche le voci dei compagni di cella e le parole di chi lo avrà deriso, di chi lo avrà compreso, di chi si sarà approfittato della sua ingenuità e di chi si sarà messo a sognare con lui. Per non parlare della speranza che Qualcuno abbia dato un senso anche a quella decisione.

Copertina del libro "Via Portoferraio, 9"

Il brano che ho scelto non è che uno dei tanti, una testimonianza di scrittura e di rappresentazione di un mondo che vogliamo ignorare ma che esiste e sul quale dovremmo talvolta soffermarci un attimo a riflettere.

Via Portoferraio, 9 – 653 insieme” di Sarah Salvini – A.L.A. Libri Livorno-Firenze-Siena (2022)

Marco Rodi

http://www.marcorodi.it/

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