Scrivere per comprendere

Mese: Marzo 2022

Lo sconosciuto delle poste

Aubenas Florence – Feltrinelli 2021

Ho finito una nuova lettura “Lo sconosciuto delle poste” di Florence Aubenas, Edito da Feltrinelli. Il libro è bello, drammaticamente bello e coinvolgente ed è tratto da un fatto di cronaca realmente accaduto qualche anno fa nella Francia provinciale ex rurale, ora industrializzata. La storia è riproposta dall’autrice che ha seguito per anni il caso giudiziario. Fa riflettere soprattutto la maledizione alla quale sembrano destinate alcune persone che, pur avendo a disposizione capacità e talenti, non riescono a emergere dalle sacche di povertà e di emarginazione cui sembrano predestinati. È come se una ruota del destino li tenesse inchiodati lì, nella ripetizione assurda e improponibile della loro storia, dalla quale non escono, come se fossero trattenuti da una forza superiore. Una forza ignota, fatta soprattutto di pregiudizi e di luoghi comuni ai quali nessuno sembra sottrarsi: né la gente comune né la magistratura. Gli ambienti, i personaggi, il contesto sono ben tratteggiati e offrono al lettore un quadro preciso e circostanziato di tutta la vicenda. Una lettura che mi sento di consigliare.

Riporto l’immagine della sinossi che si trova sulla terza di copertina.

La mattina del 19 dicembre 2008 la vita di Montréal-la Cluse, un borgo al confine con la Svizzera, è sconvolta dall’efferato omicidio di Catherine Burgod. La donna, quarantenne, incinta, viene trovata uccisa con ventotto coltellate nell’ufficio postale in cui lavorava. Dalla cassaforte sono spariti poco meno di tremila euro.

L’ufficio, nel cuore del paese, si affaccia su una via stretta e ha un’unica entrata: eppure nessuno ha visto né sentito niente. Nei dintorni tutti vengono ascoltati, la caccia all’assassino si fa serrata. Il primo indiziato è Gérald Thomassin, un attore, giovanissimo vincitore di un Premio César come promessa del cinema, e già interprete di una ventina di film. La sua vita tra il cinema e la strada, tra la celebrità e i quartieri popolari da cui proviene e a cui sempre ritorna, rappresenta un’incognita per gli abitanti del paese: in fondo, è rassicurante e scontato trovare in lui il colpevole ideale, facile bersaglio per i suoi trascorsi ai margini. Ben presto, l’inchiesta si rivela complessa e irta di ostacoli e, ogni volta che il caso sembra risolversi, le carte in tavola si scompigliano e il mistero si infittisce.

Sono serviti sette anni a Florence Aubenas per delineare questa storia vera, per dare voce alle persone coinvolte, per tracciare il ritratto di un angolo di Francia poco noto, un tempo rurale ma improvvisamente industrializzato e divenuto un crocevia del traffico di droga, per ricreare gli ingranaggi della giustizia e restituire il mondo dei servizi sociali.

Lo sconosciuto delle poste è la storia di un crimine impenetrabile, è il resoconto di un’inchiesta poliziesca e giudiziaria, ma soprattutto è la storia di uomini e donne turbati, feriti, vulnerabili. E della loro dignità.

Gli ultimi giorni di quiete

Antonio Manzini – Sellerio 2020

Un giovane trentenne, Corrado, viene ucciso nella tabaccheria di famiglia nel corso di una rapina, lasciando nella disperazione il padre Pasquale e la madre Nora. La disgrazia sconvolge i genitori al punto che anche il loro rapporto comincia a sfilacciarsi. Il dolore immenso non passa, rimane dentro urente, anche se tenuto a bada in una successione di giorni senza più significato. Soprattutto nella madre che arriva a odiare il mondo e ogni essere vivente.

L’omicida è arrestato e condannato a 15 anni di prigione.

La vicenda comincia quando, casualmente, Nora durante un viaggio in treno, scorge l’assassino di suo figlio in libertà. Sono trascorsi poco più di cinque anni dal suo arresto. L’omicida è stato scarcerato grazie ai numerosi benefici, saldando interamente il suo debito con la giustizia.

Non è così per Nora e Pasquale ai quali la scarcerazione sembra un’ingiustizia oltreché una beffa. Comincia così la storia vera e propria narrata da Antonio Manzini che dimostra, ancora una volta, le sue grandi capacità di scrittore.

Gli ultimi giorni di quiete non è il classico giallo a cui ci ha abituati; è una narrazione perfettamente equilibrata sia dal punto di vista psicologico che della tecnica narrativa. Egli sposta l’attenzione del lettore alternativamente sui tre personaggi: Pasquale, Nora e l’omicida. Entra nel loro animo, nei pensieri, nei sentimenti di ciascuno di loro, tesse le trame della loro storia, e porta noi lettori a vivere con loro le loro storie e a consumare i loro giorni.

Quasi perfetta è l’ambientazione, ben descritti i personaggi, anche quelli di secondo piano e nulla sembra lasciato al caso. Qualche appunto posso farlo solo sulla mancanza di alcune virgole (tecnica oggi molto in uso) che mi ha talvolta costretto a rileggere la frase. Un libro che mi ha coinvolto e che ho particolarmente apprezzato.

Uno stralcio: Quando Pasquale si svegliò era mattina inoltra­ta. Aprì le serrande, c’era il sole, il mare era calmo, una giornata di primavera in mezzo all’autunno. Gli venne da sorridere. Si era sempre vergognato di provare momenti di felicità. Una giornata di sole come quella, una bella partita a calcio in televisione, una chiacchiera con un vecchio compagno di liceo, un libro che lo incollava alle pagine. Quella mattina la scomoda sensazione di non poter sorridere l’aveva abbandonato. Si può, certo che si può. E ti dico la verità, Pasquale, Corrado stesso te lo chiederebbe. Nessuno gli avrebbe mai tolto dal cuore suo figlio, il suo ricordo, dolce e sereno. Se lo sarebbe portato sulle spalle come quando Corrado era piccolo e lo metteva a cavalcioni sul collo e quello rideva da quell’altezza per lui vertiginosa. E sorridere non era mancanza di affetto, non era sporcare il ricordo di Corrado con una distrazione, era vita. Lui era vivo, e quella fortuna andava onorata. Chiamalo destino, disegno divino, coincidenze dell’universo, ma poteva respirare, godersi il tepore del sole autunnale, guardare il mare cambiare colore, sudare, mangiare, bere e ridere. Non rideva da sei anni.

Gli angeli e i demoni: i figli del DNA

Osservare il gioco spettacolare della bellezza di una creazione e il formarsi negli anni di un individuo è un qualcosa di straordinario sul quale troppo poco siamo abituati a soffermarci. Così come poco, stando a queste premesse, ci soffermiamo a pensare che tutti, e non in senso metaforico, siamo fratelli perché ciascuno di noi, di fatto, discende dallo stesso incontro primigenio.

Dagli studi effettuati sembra che ciascuno di noi nasca con un patrimonio genetico frutto dell’unione di circa 1500 persone. Cioè per fare noi, proprio noi, sono occorsi 1500 avi che si sono uniti, a partire dalle origini del genere umano fino ai nostri genitori. Uomini e donne che, accoppiandosi in maniera del tutto casuale, hanno “mischiato” i loro DNA per formarne uno nuovo, il nostro, che è il corredo genetico che ci accompagna fin dalla nascita.

Dunque un corredo unico, tra miliardi e miliardi di combinazioni, nel quale c’è scritto quasi tutto di noi, a partire dall’aspetto fisico, dal funzionamento biologico fino alle macro aree del nostro funzionamento psichico.

Ma se nel nostro DNA c’è scritto moltissimo di noi per quanto riguarda l’aspetto fisico e biologico, non è altrettanto dimostrato che sia vero anche per l’aspetto psicologico e della personalità.

Contrariamente a quanto si sosteneva nel secolo scorso, nuovi studi stanno portando avanti la tesi che non proprio tutto è predeterminato nel DNA.

In particolare le neuroscienze e l’epigenetica sostengono che la personalità dell’individuo (l’insieme delle caratteristiche psicologiche e delle modalità comportamentali che distinguono un individuo da un altro) è sicuramente profondamente influenzata dal DNA, ma è anche determinata per una parte rilevante dall’ambiente in cui l’essere umano cresce e si sviluppa. Quindi è abbastanza improbabile che nel genoma di un individuo possano essere codificate per intero la personalità, le attitudini, le varie intelligenze e i campi nei quali mostriamo una maggiore o minore predisposizione. I geni ci daranno indicazioni sommarie sulla probabilità di diventare introversi o meno, riflessivi o impulsivi, e ci diranno se avremo un rischio maggiore di andare incontro ad alcolismo o a depressione in presenza di un familiare di primo grado che soffra di queste patologie. Analogamente non si può affermare che la presenza di alcuni geni particolari siano la diretta conseguenza di comportamenti criminali. Ragionamento che inevitabilmente porterebbe a mettere in discussione il libero arbitrio e sconfinerebbe in altri campi, anche in termini di responsabilità diretta nelle proprie azioni. Sicuramente certe tendenze, nel bene e nel male, sono innate e altrettanto sicuramente gli effetti rimarranno sopiti in mancanza di un ambiente che sappia scoprirli e valorizzarli.

In particolare l’epigenetica, la scienza che studia le mutazioni genetiche dovute agli effetti dell’ambiente, scopre frontiere nuove quando sostiene che sia l’ambiente a modificare in parte alcuni geni. Da qui l’affermazione che il genoma non è una struttura statica, ma dinamicamente modificabile in base alle condizioni ambientali.

Comunque sia, rimane il fatto che, tra miliardi e miliardi di combinazioni, in ciascuno di noi c’è codificato anche il nostro grado (valore) di bontà o di malvagità, che al momento non è definibile scientificamente, ma è chiaramente documentato nella storia dell’essere umano.

È su questo aspetto che vorrei soffermarmi un momento, dato il bruttissimo periodo che stiamo attraversando, quando dolore e sofferenza sono sparsi a piene mani dal dittatore di turno che oggi minaccia l’intera umanità. Non si può che rimanere allibiti di fronte a tanto orrore perpetrato con altrettanta lucida ferocia e non possiamo non stupirci di fronte alla battaglia che milioni di persone stanno ingaggiando per porre rimedio e limitare la malvagità di un singolo individuo. Ma tant’è, è la nostra storia, e tutto rientra nella norma e nelle possibili combinazioni genetico-ambientali.

Dunque, tra i miliardi e miliardi di esseri viventi nei quali il grado di malvagità-bontà è racchiuso in un range unanimemente accettato dalla società, avremo persone che si approssimano al limite della bontà o della cattiveria assoluta. Uso il termine approssimarsi, perché sappiamo che nel concetto matematico di limite esisteranno valori intermedi di cattiveria o di bontà che saranno sempre più vicini al limite, cioè all’assoluto.

A questo punto per definire o immaginare questi assoluti, che l’uomo ha chiamato il Bene e il Male, dobbiamo affidarci, piuttosto che alla logica, alla filosofia, alle religioni, alle credenze o alle superstizioni che appoggiano altrove gli assoluti, sapendo che il limite in una dimensione materiale non potrà mai essere raggiunto, ma un certo valore potrà essere infinitamente vicino. È proprio sui valori di prossimità alla malvagità che vorrei concentrarmi.

Dunque sono i genitori, la scuola, i parenti, gli amici e il contesto sociale che ci danno gli stimoli per il nostro sviluppo. Di conseguenza gli stimoli alla cattiveria o alla bontà assoluta troveranno nel contesto sociale, dove bene e male si fondono, il terreno fertile per proliferare nella direzione indicata nel DNA. 

Esiste un rimedio? È possibile prevenire? Che cosa ci sta insegnando l’orrore della guerra in Ucraina? Come limitare i danni causati da tutti i dittatori grandi e piccoli? Perché, lo sappiamo bene, ogni dittatore crea sempre sofferenza, che sia un “amico” che fa il bullo, un marito violento, un capufficio o un generale di corpo d’armata.

Domande alle quali non c’è un’unica risposta, ma ci sono azioni coordinate da compiere partendo dal concetto di “significato”, cioè quello che ha significato per quell’individuo; un individuo che sia padre, insegnante, medico, musicista, scrittore, giornalista, dirigente d’azienda o capo di stato.

Come s’identifica in quel ruolo? Quale modello di riferimento ha sposato? Su quale strato culturale e morale si appoggiano i suoi sogni e le sue ambizioni? Tu che aspiri a diventare un capo di stato, come vorresti essere? Sei propenso alla cultura, alla musica, alle arti, al benessere dei tuoi cittadini, alla giustizia sociale o sogni il grande impero economico e/o militare conquistato a cannonate?

È a partire da queste domande che una società moderna dovrebbe operare dando i giusti modelli di riferimento, abolendo le manifestazioni di violenza, gli eccessi, la rincorsa al denaro e al potere come uniche mete di significato. In poche parole è necessario spostare i valori da questi di oggi (anche del modello occidentale!) ad altri. Quindi niente di nuovo sotto il sole, sono cose sapute e risapute e predicate fino alla noia. Ciononostante siamo ancora qui a parlarne, con le immagini della morte che scorrono sui nostri telegiornali e le minacce nucleari che si susseguono. Che sia finalmente arrivata l’ora di agire?

Purtroppo è meglio non farsi troppe illusioni.

Il mio scrivere? Come scrittore è l’unica azione che posso intraprendere e, in fondo, è sempre solo il graffio di un pennino su un foglio di carta. Lo so.

18/03/2022

Il ritorno alla barbarie, la coazione a ripetere

Il ritorno alla barbarie, la coazione a ripetere

Da giorni ormai siamo bombardati dalle orribili notizie che ci giungono dal teatro di guerra. Un evento che nessuno di noi avrebbe mai immaginato possibile. Lunghissimi dibattiti in tv si susseguono, ci documentano e tentano di spiegare e motivare l’inspiegabile e l’immotivabile, se non per il banalissimo sfrenato desiderio di potere, di conquista e di sottomissione dell’altro che, guarda caso, è sempre il più debole.

Frotte di esperti, corrispondenti, giornalisti, politici e opinionisti si alternano, parlano e ci illuminano. Tra questi, alcune sere fa, diversi commentatori hanno sostenuto che se Trump fosse stato ancora il presidente degli Stati Uniti, Putin non avrebbe avuto il coraggio di invadere l’Ucraina. Tutti i presenti ne hanno convenuto. Trump, con il suo modo di essere, forse, e sottolineo il forse, sarebbe stato il giusto deterrente temporaneo per Putin. Temporaneo, perché prima o poi Putin avrebbe portato a compimento il suo piano, con le modalità che sono scritte nel suo DNA.

Anch’io ovviamente per un attimo ho condiviso quell’idea, poi mi sono bloccato subito perché mi sono reso conto di essere stato ancora una volta vittima della spinta psicologica e istintuale atavica del genere umano: delegare, affidarsi all’uomo forte, a colui che protegge, leva le castagne dal fuoco e risolve tutti i problemi. Il capo, il potente, per il senso di forza che trasmette, da sempre affascina uomini e donne. Con quel padre ci identifichiamo, a quel padre ci affidiamo. Un modo di pensare, il nostro, di cui non ci rendiamo conto, ma che dà il senso della nostra immaturità e della difficoltà che proviamo nell’affrontare la vita, che ci spinge a seguire un capobranco che, se feroce, non si accontenterà di marcare il proprio territorio e vivere in tranquillità, ma aggredirà, ucciderà e invaderà territori altrui.

Ma chi ci avrebbe difeso poi da Trump? Tutti abbiamo visto negli anni della sua presidenza e con l’assalto finale a Capitol Hill, come ha governato e che cosa è stato capace di fare. Trump ci difende da Putin ma noi, la gente comune, poi dobbiamo fare i conti con Trump e con Putin insieme (e con tutti gli altri prepotenti che stanno prolificando sulla nostra povera martoriata Terra). Il guaio è che è difficilissimo liberarsi in seguito dai prepotenti perché soccombono solo se completamente annientati.

Ogniqualvolta ci affidiamo a un capo, che non sia davvero equilibrato/illuminato, percorriamo inconsapevolmente un cammino a ritroso verso la nostra emancipazione e torniamo alla barbarie.

Dunque non ci rimane che metterci in gioco in prima persona e affidarci alla modestissima democrazia che, beninteso, è fragile, titubante, piena di compromessi e di difficoltà, ma è l’unica strada percorribile. È solo attraverso il dialogare continuo, il mediare e l’ascoltare le voci di tutti, anche delle frange più estreme, quelle più lontane da noi, che riusciremo a progredire.

Permettetemi un’immagine un po’ singolare: la democrazia è come un’enorme camera, dove tutti i letti sono disposti a raggiera dalla parte dei piedi. Un’unica coperta, di forma toroidale (una caramella con il buco, per intenderci) deve coprire tutti. Solo che il buco è più grande del dovuto e non copre tutti e poi c’è chi ha freddo ai piedi e chi invece ha caldo. Chi vuol coprirsi le spalle e chi no, chi ama dormire con i piedi al caldo e le orecchie coperte e chi non ha bisogno della coperta perché non ha mai freddo. Insomma è tutto un tirare da una parte e dall’altra, coprire e scoprire. Dormire (vivere) in un simile contesto è difficile. Ci vorrebbe una figura di polso in grado di mettere ordine. Ecco che si sceglie una persona che, con la fermezza, ci consentirà di limitare le intemperanze di qualcuno e di dormire più sereni. Solo che il guardiano si comporta come il sorvegliante di un collegio dell’800, sta in mezzo al buco, decide l’ora in cui tutti devono dormire e svegliarsi, non permette a nessuno di alzarsi nemmeno per andare in bagno e, al primo movimento, mena vergate a destra e a manca. E picchia anche quelli che involontariamente si muovono nel sonno. Il risultato è che non solo si continua a non dormire, ma non si può nemmeno protestare perché fioccano le legnate. Diventa quindi indispensabile liberarsi del sorvegliante.

E veniamo ai fatti di casa nostra e alla nostra faticosissima democrazia. Tentiamo di elevarci ancora un po’ e andiamo a esplorare sentieri esplorati per caso, con l’obiettivo di migliorare il nostro modo di essere democratici. Cosa che, senza rendercene conto, stiamo facendo. Ritengo che uno dei motivi della nostra ripresa economica sia legata alla pace sociale, che deriva direttamente dalla pace politica. Dopo anni di litigi furibondi, finalmente, tutti intorno al tavolo si discute e si programma il futuro. Sorvolo per ragioni di buongusto sul fatto che siano tutti a tavola a spartirsi la torta dei quattrini che arrivano da Bruxelles. L’esperimento però funziona; in una famiglia dove i genitori sono tranquilli, collaborano e si aiutano, anche i figli vivono tranquilli e tutti danno il meglio di sé. Banale ma vero. Perché ritengo che in una nazione moderna non sia possibile governare con azioni tutte di destra o tutte di sinistra. In quella maledetta camera, con quella maledetta coperta toroidale che non accontenta nessuno, bisogna fare in modo che nessuno tiri troppo a sé. Intravedere una democrazia nuova, libera da ideologie assolute, dove i contrapposti siedono uno a fianco dell’altro forse è il modo di vedere oltre. E magari, con il tempo, il buco centrale della coperta potrà anche restringersi.

Il mio scrivere? Tranquilli, è sempre solo il graffio di un pennino su un foglio di carta. Lo so.